La fabbrica della disinformazione

I servizi del Telegiornale  della RSI possono difficilmente essere considerati come una fonte d’informazione oggettiva e di qualità

di Damiano Bardelli


Quaderno 20
14 marzo 2019

Risultati immagini per disinformazione

A volte, guardando il Telegiornale della RSI o leggendo giornali di fama internazionale come Le Monde o il Guardian, viene da porsi una fatidica domanda: e se le testate giornalistiche considerate rispettabili e attendibili fossero attualmente una minaccia per la democrazia tanto quanto le fake news? Vista l’insistenza martellante con cui queste stesse testate ci mettono in guardia contro le bufale che girano sul web, l’interrogativo suona quasi assurdo. Ma lo è davvero? Purtroppo, quest’aura di attendibilità non coincide sempre con un lavoro critico e imparziale, e paradossalmente contribuisce a forgiare degli argomenti di autorità che non dovrebbero trovare spazio né in una stampa libera e di qualità, né in un dibattito democratico degno di questo nome.

Si pensi per esempio alle informazioni errate, faziose o manipolate che i giornalisti, volenti o nolenti, contribuiscono a propagare. In certi casi, come in quello delle bufale clamorose rilanciate da Marcello Foa, queste vengono immediatamente smascherate e additate in quanto tali. Ma altre volte la fama della testata contribuisce ad innalzare allo stato di verità assoluta e indiscutibile delle informazioni che sono in aperto contrasto con fatti attestati e documentati.

Lo sguardo a posteriori è particolarmente impietoso e la lista degli esempi recenti è interminabile, dalle famigerate quanto inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq alla semplicistica copertura mediatica della guerra civile siriana che ha fatto passare alla storia dei gruppi di jihadisti tagliagole come dei “ribelli” (Bachir El-Khoury, “Qui sont les rebelles syriens?”, Le Monde diplomatique, dicembre 2016). L’attualità offre degli esempi altrettanto eclatanti e per praticità ci si può limitare a una rapida analisi del modo in cui l’edizione principale del Telegiornale della RSI si sta occupando delle proteste dei gilet gialli e della crisi venezuelana.

Cominciamo dal sollevamento popolare che sta attraversando la Francia. A partire dal terzo fine settimana di manifestazioni – cioè da quando il governo Macron ha cominciato ad apparire in evidente difficoltà – il punto focale dei servizi è passato dalle rivendicazioni dei gilet gialli alle violenze perpetrate da una piccola parte dei manifestanti. I reportage al seguito di simpatici gruppetti di gilet gialli di provincia hanno lasciato progressivamente il posto alle immagini di giovani uomini incappucciati che assaltano la polizia, vetrine di negozi di lusso infrante, Mercedes in fiamme e poliziotti costretti a ripiegare davanti a orde inferocite di manifestanti. Disoccupati, operatrici sociosanitarie, camionisti e pensionate scompaiono dai radar, mentre i giornalisti continuano a ripetere come un mantra la lista dei gruppi che avrebbero “infiltrato” i manifestanti: casseurs, black bloc e disadattati delle banlieues.

Di fronte all’evoluzione delle manifestazioni, l’inviato della RSI evoca un’“ondata di attacchi molto violenti contro il presidente” Macron che si sarebbe placata solo con l’avvicinarsi delle feste (servizio del 15 dicembre). Le violenze sproporzionate e sconvolgenti perpetrate dalle forze dell’ordine e abbondantemente documentate su internet, invece, non hanno diritto allo stesso registro retorico, e anzi vengono spudoratamente edulcorate. Nel servizio del 9 dicembre si menziona finalmente di sfuggita l’“uso sproporzionato della forza” di cui si sarebbero macchiati alcuni agenti, ma ci si guarda bene dal parlare di “violenze” e dal diffondere le immagini ben documentate sui social di pensionate prese a manganellate, di giovani donne trascinate per terra da agenti che si divertono a sfilare loro i pantaloni, e di bambini soffocati dai gas lacrimogeni e dagli spray urticanti, preferendovi quelle di giovani uomini attaccati dopo aver provocato apertamente dei poliziotti.

Le mutilazioni causate dalla polizia, denunciate e repertoriate su internet sin da fine novembre (persone sfigurate e bocche ridotte a una massa informe e senza denti a colpi di manganello, occhi cavati dalle flash-ball, mani e piedi amputati a seguito dei danni causati dalle granate stordenti), vengono oscurate e passate sotto silenzio per oltre due mesi. La parola “mutilazione” viene evocata per la prima volta solo a fine gennaio in un servizio inizialmente prodotto dalla romanda RTS, e a utilizzarla è un gilet giallo intervistato. La perdita di arti viene per la prima volta riconosciuta in un servizio del 9 febbraio, quando ormai l’evidenza non può più essere negata dopo che uno dei gilet gialli più conosciuti, Jérôme Rodrigues, ha perso un occhio, ma i giornalisti della RSI si guardano bene dal ricorrere a delle parole forti come “mutilazione” o “mutilati”. Così come si sono guardano bene dall’utilizzare la parola “repressione” per descrivere l’operato delle forze dell’ordine francesi malgrado il fatto che le tecniche e gli equipaggiamenti da esse utilizzati siano giudicate inadeguate e intollerabili negli altri paesi europei (Julien Baldassarra, “Des armes controversées”, Le Monde diplomatique, gennaio 2019), e malgrado l’introduzione da parte del governo Macron di misure legislative antidemocratiche e autoritarie (Rapahaël Kempf, “Des violences policières aux violences judiciaires”, Le Monde diplomatique, febbraio 2019).

La copertura della crisi venezuelana non è meno problematica, purtroppo. Tra affermazioni tendenziose, imprecisioni e la totale assenza di una qualsivoglia contestualizzazione, i servizi del Telegiornale principale della RSI possono difficilmente essere considerati come una fonte d’informazione oggettiva e di qualità su quanto sta avvenendo in Venezuela.

Che dire del modo incostante con cui viene presentata la legittimità di Guaidó, che a volte viene correttamente definito come “autoproclamato presidente ad interim”, mentre altre volte è qualificato in modo del tutto improprio di “presidente designato dal parlamento” (servizi del 30 gennaio e 2 febbraio), dando l’impressione che benefici di una forma di legittimità istituzionale? Che pensare poi dell’insistenza sui presunti “aiuti umanitari” offerti dagli USA, quando addirittura il capo delegazione della Croce Rossa in Colombia ha rifiutato di sostenerli, rimettendone in questione la neutralità e la natura puramente umanitaria? Come si può pretendere di dare un’idea chiara della crisi economica venezuelana senza mai (mai, nemmeno una volta!) menzionare le sanzioni americane – rinforzate con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca – o la dipendenza dell’economia venezuelana dalle esportazioni di petrolio che lega a doppio filo il benessere del paese al corso del greggio? E come non restare di sasso di fronte alla scelta di far riassumere la situazione del Venezuela alla giornalista pro-Guaidó Eliana Loza Schiano – del quotidiano conservatore El Universal, vicino agli ambienti padronali e da sempre principale oppositore delle politiche di redistribuzione della ricchezza portate avanti dai governi di Chavez e Maduro – senza confrontarla ad alcun contraddittorio o commento critico e senza presentare in dettaglio le sue credenziali (servizio del 25 gennaio)? Alla faccia del giornalismo serio e dell’informazione imparziale!

Le immagini trasmesse durante i servizi, poi, sono altrettanto eloquenti. Ogni occasione è buona per mandare in onda delle belle immagini delle manifestazioni a sostegno di Guaidó, mentre quelle a favore di Maduro vengono oscurate o presentate con immagini che non rendono minimamente giustizia alla loro ampiezza. Il servizio del 2 febbraio è particolarmente significativo: mentre le manifestazioni pro-Guaidó vengono degnamente presentate, le folle oceaniche che lo stesso giorno hanno partecipato alle celebrazioni per il ventesimo anniversario della rivoluzione bolivariana e a sostegno del governo di Maduro vengono illustrate solo con poche, rapide inquadrature ravvicinate sulla folla, che impediscono di farsi un’idea della quantità di persone presenti. Viene da chiedersi come mai la RSI non abbia voluto mostrare le impressionanti immagini della manifestazione mandate in onda non solo da TeleSur, ma anche per esempio dal telegiornale principale del canale pubblico tedesco ARD, a sua volta apertamente critico nei confronti di Maduro.

Ovviamente non bisogna vedere questo lavoro di disinformazione come il frutto di una grande cospirazione: è difficile credere che dietro ad ogni giornalista della RSI si celino i tentacoli della CIA…

Le cause del fenomeno sono molteplici, dall’influenza delle opinioni personali degli stessi giornalisti alle pressioni dei vertici delle redazioni e delle testate, dal ricorso sistematico ai dispacci di agenzia agli obiettivi di carriera che spingono certi giornalisti a cercare la protezione di governanti e padronato, passando dall’imposizione delle linee editoriali da parte dei facoltosi proprietari dei grandi conglomerati mediatici.

Ma il fattore più determinante è probabilmente quello dell’omogeneizzazione dell’informazione dettato dallo statuto di autorità di cui godono le testate di fama internazionale. Confrontate i servizi del TG della RSI e gli articoli dei nostri quotidiani con quelli di Le Monde, del Guardian, del New York Times o di un portale come Politico, e vi renderete conto che gli organi di stampa ticinesi ne riprendono generalmente in modo acritico la linea editoriale. La loro lettura del mondo viene presentata come empirica e neutrale, ma concretamente è allineata – pur con le dovute sfumature – all’ideologia egemone del centro liberale.

Così facendo, i giornalisti – il cui ruolo dovrebbe essere innanzitutto quello di assicurare il corretto funzionamento del processo democratico – contribuiscono in modo decisivo ad appiattire l’opinione pubblica e a limitare lo spettro delle idee che le cittadine e i cittadini considerano come immaginabili e legittime. Grazie al loro lavoro, l’opinione di una cerchia ristretta di persone si trasforma in “opinione pubblica” e diventa l’unico orizzonte concepibile dall’insieme della popolazione. Il che purtroppo spinge coloro che non si riconoscono in questo pensiero unico verso testate ancora più faziose e sommarie, come Sputnik, il blog di Beppe Grillo o il Mattino.

È tutto da buttare? Ovviamente no. Certe testate internazionali – come il portale britannico Novara Media e quello americano The Intercept, fondato dal Premio Pulitzer Glenn Greenwald, o ancora il sempre brillante Monde diplomatique – offrono degli spunti interessanti per far fronte al problema. Anziché sbandierare un chimerico giornalismo neutrale, gli organi di stampa dovrebbero abbracciare un giornalismo plurale e di qualità, finanziato in modo trasparente, che si applichi alle sue fonti con uno spirito critico degno di questo nome e soprattutto che sia espressione di diversi orientamenti politici.

Si è dimenticato infatti che il ruolo della stampa, fondamentale per la democrazia, non è tanto quello di imporre al pubblico delle verità assolute, quanto piuttosto quello di fornire un’interpretazione dei fatti e dell’attualità politica. Molti giornalisti tendono sgradevolmente ad issarsi sul piedestallo dei salvatori della democrazia liberale, ma dimenticano i principi attorno a cui si giocava il dibattito illuminista sulla libertà di stampa. Per i filosofi e i riformatori dei Lumi, questa andava instaurata proprio perché permetteva un pluralismo di opinioni, dando a tutti la possibilità di esprimersi sulla cosa pubblica e permettendo il libero confronto di idee.

Qualche giornalista si prenderà la briga di commentare ed eventualmente criticare queste affermazioni, alimentando così una sana discussione sul tema? O il tutto verrà passato sotto silenzio, a conferma che lo scopo dei nostri media non è tanto di tenere viva la fiamma del dibattito democratico, quanto piuttosto di far passare inosservata ogni voce fuori dal coro?

Pubblicato in Attualità

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