Viaggio a Cuba, l’isola che c’è. Reportage di Arnaldo Alberti

Foto: Trinidad, Cuba

“Questo lembo di terra caraibica abbracciata dall’Atlantico, in passato è stata vittima delle sciagurate perversioni occidentali.” Arnaldo Alberti

di Arnado Alberti (*)
19 settembre 2009

Qui da noi e là da loro

Non è più questione di stabilire se qui, in Europa o nella Confederazione, si sta meglio e che là, sull’isola comunista dei Carabi, è peggio. Non ha senso compiacersi del proprio benessere, quando i supporti su cui è poggiato sono così fragili che s’attende, con tremore, il momento in cui crollano. Qui, come nello Stato dei presidenti Raoul e Fidel Castro, c’è gente che vive, che ama, che soffre e soprattutto che spera. Il rispetto dovuto ai cubani esclude ogni possibilità di giudizio sul loro modo di vivere, d’organizzarsi politicamente e d’essere governati. Se noi ci paragoniamo a loro, compiacendoci della nostra ricchezza, ripetiamo gli stereotipi che hanno giustificato l’eurocentrismo sul quale è stato fondato il colonialismo e il secolare sfruttamento dell’America latina. Nessuno di noi, in particolare al cospetto dei nostri problemi odierni, dei nostri fallimenti e delle crisi che ne conseguono, può arrogarsi il diritto d’interferire per stabilire ed imporre modalità politiche atte a risolvere situazioni di paesi che noi europei abbiamo saccheggiato. Ogni viaggio a Cuba, se da un lato lascia stupiti per la sorprendente bellezza dei luoghi e la capacità singolare della gente di vivere senza pretese irragionevoli, dall’altro suscita un profondo senso d’inquietudine. La povertà e la miseria che noi troviamo là è l’ombra di una nube già passata, non molto tempo fa, sopra le nostre terre e nessuno sa dove i venti in futuro porteranno il maltempo. Le perturbazioni d’oggi dicono che la cattiva stagione può tornare anche qui. Andiamo allora all’Avana e camminiamo in silenzio, attenti a leggere tutte le pagine scritte sulle calli, per riappropriarsi del sapere e del sapore dei poveri. E’ un libro, quello della città, che descrive l’infinita capacità dell’uomo, e soprattutto della donna, di vivere e sopravvivere in condizioni di disagio estreme senza rinunciare alla propria dignità. L’umanità si manifesta, nel labirinto dell’assetto urbano come germogli su una radura, la cui terra arida dà vita a dei fiori.

Gli eroi romantici

La borghesia dell’Avana, committente delle splendide ville signorili del Vedado, dei maestosi palazzi del Centro, degli alberghi di lusso dell’Avana Vieja, del Paseo del Prado, un viale dei più belli al mondo che ti porta dal cuore della città al mare, è ora ridotta alla condizione invisibile. Gli esuli di Miami, con i loro sbarchi che andavano ad approdare in una Baia dei Porci, fallivano nella progettata riconquista proprio perché, come il nome della spiaggia dalla quale volevano partire per riprendere possesso dell’isola, li classificava come ingordi e voraci. Perciò non furono accolti dagli isolani come liberatori. Nello splendido atrio dell’Hotel Sevilla ci sono le fotografie degli eroi e dei protagonisti di una bella epoca, da Hemingway ad al Capone, dagli attori e le attrici degli anni cinquanta, fatti di celluloide invece che di carne, come le pellicole che scorrevano nei proiettori per mostrarli in tutta la loro finzione e funzione inutile. Recitavano una vita che non c’è e che noi, frivoli, abbiamo creduta vera e possibile. Nell’Avana del dittatore Battista i dollari scorrevano a fiumi, rompendo gli argini d’ogni diritto e fertilizzando i territori della corruzione. Nell’isola era stato messo sullo stesso piano di legittimità il bordello, la casa da gioco e la banca. Svagarsi a fare l’amore, oppure ad un tavolo puntando su dei numeri, o in borsa dove il guadagno dell’azzardo supera il frutto di denaro impiegato per creare lavoro, all’Avana si equivalevano. La tensione spirituale ed intellettuale, che dà il ritmo e il tono alla vita, abbandonati i territori dell’etica e della morale fu deviata su percorsi che confusero ciò che è falso ed ingannevole col reale ed il possibile. Questo era il mondo del dittatore che gli Stati Uniti avevano voluto e sostenuto a Cuba per amministrare le loro case chiuse, le bische e le banche di malaffare, tutte istituzioni che, per certi versi, assomigliano in modo preoccupante alle nostre. Sul Paseo del Prado, un palcoscenico per le signore che lo percorrevano e per il vestito che indossavano in armonia con lo scenario delle architetture raffinate dei palazzi, s’impone alla mente il percorso che dalla nostra povertà dignitosa degli anni cinquanta ci ha portati al tempo attuale dei lupanari, delle bische legalizzate, delle piazze finanziarie di cui andiamo fieri e perciò difendiamo ad oltranza l’arrogante sfida nei confronti di Stati che vogliono un rapporto sincero fra il cittadino e il fisco. Non ci rendiamo conto che ciò, invece di un segno di forza e di vitalità del paese, è il sintomo di una fragilità estrema, di una decomposizione che sa di vecchio e decadente. Insomma, non senza incoscienza, in certi ambienti di Lugano si vuole un Ticino trasformato in una Cuba sui generis, dei tempi di Fulgencio Batista, perché noi siamo ignari di cosa sia veramente un corretto concetto di cittadinanza e riprodurre a Lugano la Montecarlo dei Ranieri e di Grace Kelly, tutelata dalla Francia, è solo un sogno.

Una città che si sbriciola

L’Avana è un luogo al mondo dove drammaticamente si sente la precarietà di cose che a prima vista, e per la denominazione che portano, sembrano stabili. La città vecchia e il Centro sono teatri che testimoniano, oltre la caduta rovinosa della borghesia, il disfacimento del palcoscenico su cui recitava il suo ruolo. Le ville e i palazzi stupendi, d’architettura di raffinata qualità e d’elegante disegno dell’ottocento e del primo novecento, che raramente se ne vedono tante in una sola metropoli, si sbriciolano a poco a poco, lasciando frammenti come reliquie di corpi o reperti che compongono e testimoniano il bello esclusivamente per il ricordo. Vedendo ciò si può capire l’affronto fatto alla borghesia dominante degli Stati Unti che s’illuse, nel ruolo di colonna portante dell’impero, d’essere eterna. Non sono gli infuocati discorsi di Fidel di ieri, e di Chávez oggi, che irritano il colosso che sta di fronte ai Caraibi, quanto la devastazione e il crollo, avvenuto senza l’impiego di bombe, di un’intera capitale. L’incuria, con l’ostinata violenza degli uragani, del vento e della salsedine che vengono dal mare, rendono instabili interi quartieri. I palazzi che mantengono le facciate sfarzose, sono corrosi anche all’interno da decine di famiglie che s’installano come formiche in un termitaio. Gli uomini portano dentro gli edifici fatiscenti i barili di latta e l’installano nei corridoi, per avere acqua potabile, perché l’erogazione pubblica è interrotta. Erano case di ricchi. Oggi i poveri quelle ville e palazzine, sembra che non le amino proprio. Erano costruite per compiervi i riti di una religione borghese, fatta di conversazioni, di rapporto educato, di tanta ipocrisia e viltà che ne ha determinato la caduta. Fa perciò sorridere e suscita tanto scetticismo il discorso della democrazia che gli Stati Uniti e l’Europa vogliono imporre al mondo dei poveri con gli embarghi che li fanno soffrire ed i massacri. La nostra di democrazia ha sempre in sé la determinazione di restaurare quel teatro che si recitava nelle ville e nei palazzi dei baroni dello zucchero. Paradossalmente è un regime che garantisce libertà al potente e al ricco d’agire per distanziarsi sempre più dal povero. Da noi si sente in giro un bisogno di miseria per avere la conferma di quanto un uomo, o una donna, sono in grado di disprezzare e deprezzare un loro simile, rendendolo oggetto di mercato invece che affiancarlo quale soggetto politico. I cubani queste cose le sanno e sono più che diffidenti nei nostri confronti. La borghesia dell’ottocento e d’inizio novecento, a differenza di quella d’oggi culturalmente misera, recitava il proprio ruolo con professionalità e impegno, poggiandosi su un terreno culturale fatto di letteratura, d’arte, di musica e di speculazione filosofica. Gli edifici fatiscenti dell’Avana testimoniano di una classe imprenditoriale che non seppe afferrare il senso pieno di libertà. Era tuttavia convinta di conoscerlo nelle sue più intime costituenti nel momento in cui edificava il palco di un teatro con gli scenari architettonici dell’eclettismo, del neoclassico, del liberty e del floreale. Noi, a Locarno e a Lugano, abbiamo distrutto sistematicamente le testimonianze di questi stili, proprio per dimenticare il ricco che sapeva recitare il suo ruolo in un’atmosfera di splendore e di vivacità intellettuale. Al posto delle ville e dei grandi alberghi distrutti nelle nostre città abbiamo costruito anonimi contenitori di gente straniera che noi, invece che ospite, l’abbiamo preferita proprietaria di beni che erano nostri. Sul palcoscenico delle nostre città il rapporto sociale e civico è esclusivamente di una dimensione determinata dal denaro e non dallo spirito libero e creativo. Il segno, il codice e l’alfabeto di lettura è decifrabile oggi come la traccia archeologica sulla quale sta scritto l’ultimo messaggio lasciato da un popolo che decade e si estingue. La borghesia bianca di Cuba fu una classe benestante vile. I ricchi se la squagliarono vergognosamente al solo apparire di Fidel, di Camilo Cienfuegos e del Che: tre uomini barbuti, belli e sufficientemente privi del buon senso che fa fallire le rivoluzioni e perdere le battaglie.
Le donne dell’Avana

Il Che, per tante ragazze d’oggi, è ancora bellissimo. Campeggia su magliette, coprendo i seni che da noi hanno abbandonato lo scopo d’essere una sorgente che nutre e disseta. All’Avana, invece, il seno è ostentato con orgoglio. Sull’isola dominano il femminile e la madre. E’ una genitrice nera e forte, sopravvissuta alle sofferenze patite negli sterminati campi di zucchero. La donna nera, appena ha saputo che i bianchi, con le loro mogli isteriche e smaniose, erano fuggiti a Miami, ha lasciato i campi per stabilirsi in città. Nelle casseforti delle splendide ville della capitale ha trovato gioielli e plichi di dollari e sotto casa, parcheggiate, le Chevrolet, le Cadillac, le Dodge e le altre vetture dai nomi strani ed assieme misteriosi come De Soto, Studebaker, Chrysler e Hudson. Oggi queste vetture esauste appaiono come coleotteri dagli involucri colorati e lucidi che si muovono, goffi e lenti, su falde di sterco. Le donne nere sono ancora sedute sulla soglia delle case di una lunghissima via che si chiama Anima, come facevano ai tempi in cui vivevano nelle capanne. Le vecchie ricordano com’era bella la casa che oggi cade a pezzi e ricordano lo stupore provato scendendo il Paseo del Prado verso il Malecón, ammirando i sedili di marmo, i maestosi lampioni a forma di lanterne e i leoni fusi con il bronzo dei cannoni che armavano i galeoni della cattolicissima Spagna.

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(*)Arnaldo Alberti, scrittore, ha partecipato a vari viaggi a Cuba organizzati dall’Associazione Svizzera-Cuba. È nato a Brissago nel 1936. Vive a Locarno. Scrive romanzi, racconti, testi per il teatro, articoli per giornali e per settimanali della Svizzera italiana. Ha pubblicato «La famiglia di Beatrice», Hestel ed. Bologna, 1984, romanzo vincitore del Premio Ascona 1983; «Via Sant’Antonio», Edizioni il Trespolo,1987; «ch 91», edizioni Laffranchi, 1995; Presente e Passato, 2006. La Radio della Svizzera italiana ha realizzato i suoi drammi: «Antonio da Tradate», 1986, «Re Carlo e il fuoco che venne dal cielo», 1987 e «Nicolao e il Temerario», 1987.

Pubblicato in Resoconti

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