“Fukuyamisti” latinoamericani mascherati da “progressisti”

Quello che viene chiamato “progressismo” potrebbe non essere altro che conservatorismo mascherato.

di Sacha Llorenti (*)
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Lettera ai miei amici progressisti

(*)Sacha Sergio Llorenti Soliz (nato a Cochabamba, Bolivia, il 13 marzo 1972) è un politico boliviano, laureato in giurisprudenza ed ex ministro nel governo di Evo Morales;  è stato rappresentante permanente dello Stato Plurinazionale della Bolivia presso le Nazioni Unite a New York, negli Stati Uniti. È stato eletto segretario generale di Alba-TCP durante il diciottesimo vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi virtualmente lunedì 14 dicembre 2020.

Il puntino sulla i

Il recente intervento del presidente cileno Gabriel Boric al vertice dei Paesi sudamericani impone un dibattito su cosa si intenda con il termine “progressista“. Il termine compare in quasi tutti i riferimenti al panorama politico dell’America Latina e si parla di una “seconda ondata progressista” o di tentativi di far rientrare sotto questo ombrello un’ampia varietà di posizioni politiche.

Fraternamente, vi chiedo:
può essere considerato “progressista” chi attacca ripetutamente Cuba, Venezuela e Nicaragua senza considerare le gravi aggressioni degli Stati Uniti contro questi paesi?
È “progressista” la partecipazione alle manovre militari dell’UNITAS organizzate dal Comando Sud e realizzate nell’ambito del Trattato di Assistenza Reciproca Interamericana (TIAR)?
È “progressista” l’appoggio alla NATO?
È “progressista” accettare il disordine internazionale promosso da organismi come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) alle sue stesse condizioni?

Non si tratta di un dibattito superfluo, la lotta sul significato delle parole è una parte importante della battaglia culturale e della costruzione della cosiddetta egemonia. Molti di voi rifuggono da parole come imperialismo, colonialismo o sinistra. È ovvio che volete moderare, neutralizzare. Chi regredisce nel linguaggio regredisce anche nell’azione. D’altra parte, chi nomina, designa; chi designa, vince.

L'illusione è durata poco. Boric in Cile, la crisi della coalizione PSOE-Podemos in Spagna, il crollo del governo Fernández in Argentina, mostrano la crisi strategica dei progetti politici che si riconoscono nel campo "progressista".

Colpisce che da questo “progressismo” non solo si analizzi la realtà eliminando dall’equazione la costante dell’imperialismo, anzi la parola non viene nemmeno nominata. Ritengo che ciò sia inaccettabile; costituisce una sconfitta culturale e politica che di fatto significherebbe anche una capitolazione.

L’imperialismo, come fenomeno economico, finanziario, commerciale, politico, militare, tecnologico, istituzionale, comunicativo e ideologico, è una realtà indiscutibile ed è uno dei principali ostacoli alla costruzione di una società più giusta. Allora, compagni, questo “progressismo” è anti-imperialista?

Su un altro piano, alcuni spazi “progressisti” sembrano limitare l’orizzonte politico ed economico alla redistribuzione delle risorse, all’espansione di alcuni diritti e all’allargamento del campo democratico attraverso la lotta per l’identità. Non c’è niente di male in questo, ma che dire della lotta di classe, dell’oscena disuguaglianza, dell’enorme potere delle imprese transnazionali, della proprietà delle risorse naturali e delle imprese strategiche?

Hanno evidentemente abbassato le bandiere della lotta contro il capitalismo, ignorando il fatto che questo sistema non solo saccheggia le risorse e sfrutta i popoli, ma che è la causa della crisi climatica, il cui effetto potrebbe essere l’estinzione della specie.

La Thatcher ha sempre onorato il debito della Gran Bretagna nei confronti di Pinoche. Nessuno, tranne Margaret Thatcher, avrebbe rischiato di inviare la flotta britannica a 8.000 miglia nell'Atlantico meridionale per riconquistare le Falkland nel 1982. E nessun altro avrebbe rischiato la sua reputazione per difendere quella di Augusto Pinochet, quando questi fu arrestato in Gran Bretagna, 16 anni dopo. Non ha mai fatto mistero del fatto che le due cose fossero collegate.

Forse ricorderete che, qualche anno dopo aver lasciato l’incarico, a Margareth Thatcher fu chiesto quale fosse il suo risultato più importante come Primo Ministro del Regno Unito. La distruttrice del sindacalismo britannico e strenua difensore dell’apartheid in Sudafrica rispose: “Tony Blair e il New Labour“, riferendosi alla svolta a destra del Partito Laburista britannico.

Come sappiamo, il principale alleato della Thatcher nella nostra regione era il dittatore cileno Augusto Pinochet. Probabilmente, guardando all’esito del processo costituente cileno, all’allineamento del governo Boric con gli Stati Uniti e ai suoi attacchi a varie rivoluzioni, anche Pinochet potrebbe affermare che questo “progressismo” è tra i suoi più grandi successi?

So che queste affermazioni possono sembrare dure, ma la battaglia culturale e la chiarezza delle posizioni sono molto importanti e perderle ha un costo molto alto.

Il filosofo politico statunitense Michael Sandel risponde alla domanda sul perché l’estrema destra stia crescendo indicando il fallimento delle politiche dei partiti socialdemocratici o progressisti nell’affrontare la crescente disuguaglianza causata da quelli che chiama gli “eccessi del capitalismo“. Probabilmente è qui che possiamo trovare le risposte al fallimento del processo costituente cileno o all’esito dei negoziati del governo argentino con il FMI e alla tragica possibilità di un ritorno della destra in quei Paesi.

Il filosofo di origine tedesca Walter Benjamin disse che dietro il ritorno del fascismo c’era una rivoluzione fallita. La rinascita del fascismo in Europa e in altre parti del pianeta è probabilmente dovuta al nuovo fallimento dei socialdemocratici e dei progressisti che promettono cambiamenti e, non modificando le cause strutturali della crisi, tradiscono il loro discorso e i loro elettori.

Lo sloveno Slavoj Žižek afferma che, in realtà, tali correnti politiche non riescono a vedere oltre l’orizzonte limitato del “capitalismo liberale e democratico“, diventando così seguaci di Francis Fukuyama, che di fronte al crollo del campo socialista negli anni ’90 ha decretato la “fine della storia“.

8 febbraio 1989: Francis Fukuyama annuncia la "Fine della Storia"

Nel nostro contesto, i “fukuyamisti latinoamericani”, mascherati sotto il titolo di “progressisti“, sono funzionali sia al capitalismo che all’imperialismo. Contribuiscono sia alla demonizzazione dei processi rivoluzionari o dei leader, sia alla demonizzazione delle parole e del loro significato. Cercano di togliere il contenuto essenziale della sinistra diluendolo nelle ambiguità del “progressismo.

Gli effetti di questa tendenza sono molto pericolosi perché di fatto spostano il centro dello spettro politico verso destra e con esso l’orizzonte trasformativo. A sinistra dobbiamo riconoscere che si tratta di una questione molto importante. Non possiamo permettere che si alimentino confusione e conformismo, che si cerchi di addomesticare le speranze e, in questo modo, di sostenere lo status quo.

Per concludere, cari compagni, se essere “progressisti” significa innalzare i vessilli dell’antimperialismo, della lotta di classe, della lotta contro il colonialismo e contro il capitalismo, contate su di me per conquistare il cielo.

Sacha Llorenti 

Pubblicato in Attualità, Internazionale

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