Frammento del prologo del libro “La isla posible. Ensayos sobre ideología y revolución” dell’intellettuale cubano Enrique Ubieta [Buenos Aires, Ediciones Acercándonos, 2022]
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Di Néstor Kohan
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Critica e polemica nel vuoto postmoderno.
“E se unissimo il meglio del capitalismo e del socialismo?” Che proposta colma di assurdità e sciocchezze! Forse sarebbe divertente porsi questa domanda dopo aver provato uno spinello: i sogni immaginari ad occhi aperti non sono un peccato! Sognare non costa nulla, dice il detto popolare. Anche il mondo dell’immaginazione e dei sogni a occhi aperti aiuta a condurre una vita migliore. Anche se tra i sogni e la realtà c’è spesso… una distanza minima.
Ma se lasciamo da parte le battute sulla marijuana e facciamo finta di avere un minimo di serietà intellettuale, poniamo la stessa domanda a Billy Gates, Elon Musk, Carlos Slim o George Soros e osserviamo come rispondono. O forse potremmo interrogare i magnati che guidano il Forum sociale di Davos per vedere se sono d’accordo.
A questo proposito, ricordo una visita del pensatore belga Ernest Mandel, nel marzo 1993, all’Università di Buenos Aires (UBA). Mandel è stato uno dei principali economisti marxisti del mondo. Persino i rappresentanti del FMI e della Banca Mondiale, nemici mortali delle sue teorie, vollero incontrarlo di persona (secondo la testimonianza di alcuni suoi discepoli). Mandel si è anche recato sull’isola caraibica negli anni ’60 e ha partecipato al “dibattito cubano” (1963-1964). Quando arrivò a Buenos Aires nel 1993, tre decenni fa e poco dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica (di cui era critico), tenne una conferenza all’UBA. Tutti vennero ad ascoltarlo. Io dovetti stare in piedi, perché non ci stava più l’ombra di nessuno in sala, insieme al professor José Sazbón (uno dei più grandi studiosi della cultura di sinistra argentina). Purtroppo la sua conferenza non è stata né registrata né filmata. Ma lo ricordo nei dettagli. Lì Mandel, in uno dei suoi passaggi centrali, ci disse: “voi in Argentina idealizzate i Paesi e le società scandinave. In particolare la Svezia. Quello che non sapete è che in quei Paesi, modelli di “socialdemocrazia” a livello mondiale, governano di fatto quattro o cinque famiglie di potenti milionari“. Non si trattava dell’avvertimento di un improvvisatore o di un dilettante, ma di qualcuno che sosteneva la sua analisi con dati, statistiche e una quantità spropositata di studi, libri e ricerche empiriche. Come europeo occidentale, sapeva bene di cosa stava parlando.
In Scandinavia, in particolare in Svezia - modelli di "socialdemocrazia" a livello mondiale - governano di fatto quattro o cinque famiglie di potenti milionari
Leggendo alcune delle polemiche contenute nel libro di Enrique Ubieta, ho l’impressione che questa stessa idealizzazione della socialdemocrazia nordica stia dilagando anche a Cuba, nonostante il fatto che i principali Paesi scandinavi abbiano recentemente chiesto di entrare nella NATO, abbandonando ogni pretesa di “neutralità“. Sarebbe allora un modello realistico per il futuro di Cuba? Vale a dire, subordinandosi completamente, senza infamia e senza gloria, al neoliberismo furioso e alla politica guerrafondaia dell’imperialismo nordamericano e occidentale. Sarebbe quindi un modello realistico per il futuro di Cuba? O cosa spetta a quest’isola irredenta, se rompe definitivamente con il socialismo e inizia il suo “atterraggio morbido” nell’economia sociale di Mercato…?, senza ulteriori indugi, essere come Porto Rico? Qualsiasi controversia sulla socialdemocrazia per Cuba non dovrebbe evitare queste domande.
Continuiamo quindi con il canto delle sirene del bombardamento mediatico della dittatura dell’algoritmo: “Non discutiamo di ideologia, discutiamo di beni di consumo di ultima generazione. A chi interessa il miglior vaccino cubano contro la pandemia COVID 19 rispetto al televisore gigante e all’auto all’ultima moda di Miami?
In altre parole: “se ci subordiniamo all’aquila, avremo l’ultimo modello di smartphone, l’ultima versione di computer design e la moto ultimo modello, di grido, anche a costo di perdere la nostra bandiera, la nostra lingua, il nostro cinema, la nostra letteratura e la nostra identità“. Per dirla in modo chiaro e inequivocabile: cosa importa se smettiamo di essere Cuba e diventiamo Porto Rico, se in cambio otteniamo le migliori marche di vestiti, i sintetizzatori che sostituiscono un’intera orchestra e i telefoni cellulari più complessi?
Sebbene il macro problema che attraversa tutto il libro di Enrique Ubieta ruoti attorno al dibattito di base sulle ideologie in competizione, le prospettive che l’autore utilizza per affrontare questi problemi e rispondere a queste domande si collocano a livelli e dimensioni diverse.
A nostro avviso, ve ne sono tre principali: (a) discussioni strategiche, principalmente di natura teorica; (b) dibattiti e polemiche politiche; (c) riflessioni apparentemente minimaliste e “innocenti” sulla vita quotidiana.
Non c’è niente di più pratico di una buona teoria
Come convincere un intero popolo ad arrendersi e ad accogliere a braccia aperte il suo nemico storico?
Ricordiamo che i grandi teorici del confronto e del conflitto, il prussiano Karl von Clausewitz e il britannico Basil Liddell Hart, sostenevano nelle loro rispettive dottrine che “la guerra migliore è quella che si vince senza combattere“. Per raggiungere questo obiettivo, il nemico da sottomettere deve essere disarmato ideologicamente. Convincetelo che la resistenza è inutile. Se la forza dei resistenti sta nella loro fermezza ideologica, cosa c’è di meglio che cercare di abbandonare ogni ideologia?
Ubieta spiega in modo molto chiaro e piacevole, in modo che tutti possano capire, che lo slogan ripetitivo “la fine delle ideologie” è esso stesso un’ideologia.
In cosa consiste questa ideologia della “fine di tutte le ideologie” e la richiesta di abbandono del “linguaggio polarizzante“, nel caso specifico di Cuba? È semplicemente un invito a stringersi in un abbraccio perverso tra ex rivoluzionari, stanchi o convertiti, con il vecchio e ormai senile padrone imperiale. Ovvero, accogliere con gentilezza, mitezza e il più grande complesso di inferiorità immaginabile chi per sei decenni ha sottoposto il popolo cubano a un blocco irrazionale, condannato da quasi tutta la comunità internazionale. Accettare il ritorno, con il cappello in mano, la testa bassa e gli occhi rivolti a terra, di coloro che hanno cercato di assassinare più di 600 volte il principale leader storico della rivoluzione cubana. Considerare “fratelli della stessa famiglia” gli specialisti delle tecniche di tortura, maestri di diverse generazioni di forze repressive latinoamericane.
Le stesse persone che si vantano pubblicamente (in video, interviste, memorie) di essere “esperti” di colpi di Stato, processi elettorali fraudolenti, architetti di golpe blandi o istituzionali, ingerenze in Paesi sovrani. I principali responsabili di centinaia di migliaia di persone scomparse in tutto il continente (da Guatemala, El Salvador e Perù, a Cile, Argentina e Brasile). Quelli che hanno usato il traffico di droga e la vendita illegale di armi per finanziare la contro-insurrezione in Nicaragua, uccidendo suore, insegnanti e medici.
Coloro che ci invitano con una faccia allegra e rassicurante e con un tono gentile e garbato ad “abbandonare i paraocchi ideologici” fanno finta che le vittime e i loro carnefici si stringano guancia a guancia, petto a petto, braccio a braccio.
Enrique Ubieta rende terreno il dibattito riconducendo la discussione teorica sulle ideologie ad altri problemi vitali, cruciali e fondamentali per la comprensione di Cuba, del suo conflitto con l’imperialismo statunitense e dei suoi vari tentativi di navigare in acque incerte verso una società più giusta: il socialismo.
A questo punto, il libro recupera ed estende la dimensione storicista e dialettica che interroga la pluralità e la coesistenza di molteplici contraddizioni nella società contemporanea, cercando di scrutare quali siano quelle principali e quali quelle secondarie. L’autore ritiene che la principale contraddizione sociale del mondo attuale (segnato dalla crisi dell’imperialismo come sistema mondiale, che non è esente da sviluppo ineguale, dipendenze, saccheggio, sfruttamento, ecc.) sia quella il cui antagonismo irriducibile contrappone “i Paesi sfruttatori” ai “popoli e Paesi sfruttati“.
Da ciò deduce che Cuba, ex colonia spagnola, poi paese dipendente e neocolonia statunitense, che ha raggiunto l’indipendenza e l’autodeterminazione nazionale con il trionfo del movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro, può mantenere questa autodeterminazione come nazione sovrana (di fronte all'”autonomismo” e all'”annessionismo”, travestiti con nuovi abiti) solo se allo stesso tempo rimane ferma nella sua ricerca di una nuova società non capitalista, popolarmente conosciuta come socialismo. L’autore chiarisce subito che non esiste un unico modello di socialismo e che non si tratta di un punto di arrivo fisso e statico una volta per l’eternità. Lasciando da parte quelle vecchie definizioni da manuale che la vita stessa ha messo in crisi, Ubieta considera il socialismo come un processo aperto e un percorso senza una fine prefissata. Mai uno stato di cose si è cristallizzato e fermato nella storia.
Fatta questa fondamentale precisazione, Ubieta aggiunge che se il progetto socialista viene abbandonato in nome del canto delle sirene del pragmatismo mercantile, Cuba perderà automaticamente la sua indipendenza sovrana e la sua autodeterminazione nazionale. Ecco perché, secondo le loro argomentazioni, è fatuo e vuoto cercare di separare José Martí da Marx, Fidel e il Che. Non può esistere un “patriottismo” o “nazionalismo” cubano (dove Miami e L’Avana potrebbero finalmente ballare la stessa melodia, giocando a domino e mangiando fagioli) che non sia allo stesso tempo antimperialista e socialista. Non per una definizione da dizionario, non per uno spirito “assiomatico” o un dogma da manuale, ma per l’esperienza storica. L’imperialismo ha inghiottito numerose rivoluzioni che non potevano o non sapevano andare fino in fondo. Ci sono gli esempi, anche trionfali, della rivoluzione messicana all’inizio del XX secolo o di quella boliviana del 1952: entrambe hanno trionfato! Ma non potevano andare a fondo, non hanno pensato di lasciarsi alle spalle il capitalismo dipendente, e così hanno finito per tornare indietro e ripristinare infine i rapporti di sfruttamento e dominio che esistevano prima dei trionfi rivoluzionari. Con questa esperienza continentale schiacciante e devastante sulle spalle, estranea a qualsiasi dogma “ideologico”, la cosa più pragmatica, più realistica e più praticabile da fare è continuare a navigare contro vento, marea e uragani alla ricerca di una società più giusta, il socialismo, senza disegnare “modelli” su una lavagna, predeterminati in anticipo.
Falsi miti e giganti veri. Vi siete mai chiesto perché “Pepe” Mujica non è mai stato attaccato dai mainstream? (guarda le FOTO)
A novanta miglia di distanza dal mostro che, in piena crisi e declino, sta oggi cercando di trascinare l’intero pianeta verso la guerra nucleare, Cuba non può permettersi di fingere di essere la Svezia, come sognano i “cubano-americani” (quelli dell'”atterraggio morbido”) e i vari borsisti della Fondazione Ebert o allievi di George Soros (campioni nelle reti del “repubblicanesimo socialdemocratico” e dell’abbraccio perverso tra oppressori e oppressi).
Con queste sole riflessioni, il libro avrebbe raggiunto il suo scopo. Ma Ubieta non è soddisfatto. Si impegna a fare di più.
Torna poi su uno dei problemi a cui ha dedicato un intero libro pubblicato nel 2012: il dibattito affrontato da Rosa Luxemburg di fronte ai gerontocrati etnocentrici della vecchia socialdemocrazia colonialista europea: riforma o rivoluzione?
Ubieta non si riallaccia alla triste e patetica eredità di Eduard Bernstein (le cui argomentazioni sono oggi riciclate e/o plagiate, senza citare il nonno fondatore, dagli euro-“comunisti“ spagnoli, critici di Cuba ma apologeti della NATO). Il nostro autore non si rintana in una biblioteca per fare una storia delle idee. Pensando a un pubblico giovane, colloca il dibattito nel XXI secolo e lo formula in modo specifico per il futuro di Cuba. Il suo dibattito è mirato, non astratto.
Se in passato l’isola di Fidel e del Che era uno dei fari della ribellione continentale, oggi potrà trasformarsi in una nuova Mecca, riformista e socialdemocratica? O continuerà, nelle nuove condizioni storiche, a scommettere su un cambiamento permanente, sistematico e continuo in mezzo a un mare sempre più agitato? Invitiamo coloro che leggono questo libro a cercare nelle sue pagine la risposta e a continuare a leggere, se interessati, altri libri e saggi di Ubieta che affrontano anche questo problema.
Infine, questo testo analizza altri problemi fondamentali, strategici, ma non limitati alla politica.
Da un lato, il dramma umano della vita e della morte, un gioiello di pensiero così stilisticamente curato e compiuto da poter essere letto anche da chi non conosce una virgola di marxismo.
D’altra parte, un tema centrale dei Manoscritti di Marx del 1844, letti e studiati in dettaglio come possiamo vedere in numerosi scritti e discorsi di Che Guevara: il conflitto tra l'”avere” (la mediocre utopia che ci viene proposta da La Florida e ogni sera dalla TV capitalista) e l'”essere”, inteso non come una metafisica indefinita ed eterna, ma come un nuovo senso della vita, infinitamente superiore a qualsiasi manuale fai da te, di quelli venduti nei supermercati e nelle librerie commerciali (almeno in Argentina).
Ubieta ha già analizzato la questione dell’avere e dell’essere in un libro che riporta nel titolo proprio questa contraddizione. Ma qui va ancora più a fondo, trovando nuove modulazioni di una critica radicale al consumismo predatorio, al vuoto postmoderno e alla cultura da vetrina. A sostegno del suo intelligente ragionamento, ci fornisce un passo di José Martí (Lettera a María Mantilla, 9 aprile 1895) che ci lascia a bocca aperta per l’anticipazione dell’apostolo nel vedere ciò che stava per accadere… Martí non conosceva i Manoscritti che Marx scrisse a Parigi nel 1844, né il testo “Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto“. Ma in un linguaggio diverso, egli giunse alle stesse conclusioni di Marx, che sono ancora oggi straordinariamente valide!
Critica e polemica nel vuoto postmoderno
l'"Illuminismo" con il repubblicanesimo neocoloniale, plumbea ancora di salvezza per la rivoluzione cubana ... (!!!) Il matrimonio forzato che cerca di installare, passo dopo passo e senza che nessuno se ne accorga, la bizzarra idea di una presunta società "post-rivoluzionaria"
Se la prima dimensione del suo libro naviga nelle acque mutevoli dei dibattiti teorici e strategici, nella seconda dimensione si azzarda ad affrontare un’altra serie di discussioni, principalmente incentrate sulla politica.
Su questo terreno, guardando il suo libro da un’angolazione macro, Ubieta cerca di far rivivere e recuperare lo spirito offensivo del movimento rivoluzionario, per troppo tempo lasciato in un cassetto “in attesa di tempi migliori“. È ora di abbandonare la mentalità di una fortezza sotto assedio e di smettere di mettersi sempre sulla difensiva. Questo libro e altri che circolano nel nostro tempo osano – ottima decisione, finalmente – porre fine al complesso di inferiorità (ingiustificato) della tradizione rivoluzionaria.
E poi Ubieta si butta subito sul lavoro nei confronti di alcune “mode“, inconsistenti, vacue, tremendamente moscie e in molti casi piene di plagi dalla socialdemocrazia europea, dal socio-liberalismo italiano e dalle tardive reminiscenze dell’euro-“comunismo” spagnolo. Sotto questo titolo, Ubieta affronta il legame fasullo e inverosimile che cerca di equiparare, in un eclettico pasticciaccio postmoderno, l'”Illuminismo” con il repubblicanesimo neocoloniale, plumbea ancora di salvezza per la rivoluzione cubana… Il matrimonio forzato che cerca di installare, passo dopo passo e senza che nessuno se ne accorga, la bizzarra idea di una presunta società “post-rivoluzionaria”…
Un nuovo “POST” nel caso in cui il post-strutturalismo, il post-marxismo, il post-modernismo, gli studi post-coloniali, il post-operaismo e tanti altri derivati delle metafisiche “POST” !
Ubieta spiega, con grande pazienza, ciò che dovrebbe essere ovvio ma non lo è più. Se la rivoluzione cubana appartiene al passato e se oggi vivessimo in una società “post”, gli unici modi possibili per vivere meglio sarebbero… individuali. Addio a qualsiasi progetto collettivo. E non solo individuale, ma anche… in inglese. Avete capito? Un’altra scorciatoia senza uscita che il nostro autore individua, identifica, segnala e mette in evidenza per evitare ingenuità.
La minestra riscaldata della vecchia socialdemocrazia
E poi il libro, senza alcun complesso di inferiorità e senza temere il linciaggio mediatico (a cui il gusanaje [il verminaio, ndt] di Miami e i loro più stretti ventriloqui e portavoce ci hanno abituato, come abbiamo subito in carne e ossa), s’addentra subito nella discussione della socialdemocrazia e del tanto blaterato “centrismo” (versione caraibica della fallimentare “terza via“). In altre parole, la forma elegante e presumibilmente chic assunta dall’ideologia della restaurazione del capitalismo dipendente a Cuba.
Questo è uno dei principali fulcri polemici del libro, che tra l’altro non si esaurisce in quest’opera. Perché il grande cavallo di Troia che vari allievi di Soros, esultanti borsisti della Fondazione Ebert e non pochi “cubano-americani” pretendono di presentare come una brillante novità e un’enorme scoperta teorico-politica… in realtà è più vecchio dell’umidità. Solo che ora gode della benedizione (leggi: tracotanza di dollari ed euro) della contro-insurrezione statunitense e della NATO.
Ora che il terrorismo primitivo di Posada Carriles e dei suoi complici criminali è fallito, lo stesso progetto viene oggi presentato, in modo meglio confezionato e appariscente, come “socialdemocratico“. Rimandiamo il pubblico alla lettura di ogni polemica di Ubieta che, senza mancare di rispetto a nessuno e con un tono, se vogliamo, morigerato ed elegante, mette tutti al loro posto.
Non siamo minimamente sorpresi o colpiti dal fatto che i “cubano-americani” (che si definiscono sionisti, come se non bastasse la loro ossessione per l’imperialismo yankee) farfuglino una serie di luoghi comuni con la gestualità e il contegno dei soliti “esperti” provenienti da università ignote, che sfilano sulla CNN come se fossero presunti sapienti, quando invece sono profondamente ignoranti, troppo per essere esposti davanti a un tavolo di discussione.
D’altra parte, siamo sinceramente dispiaciuti (cioè impietositi e a volte addolorati) che gli ex rivoluzionari radicali si lascino sedurre da queste mostruosità indigeste. Questo permette a chi scrive il prologo di riflettere – forse tardivamente – sul fatto che forse non tutto ciò che in passato veniva presentato come “eterodossia” era completamente radicale e di sinistra.
Ricordo chiaramente, ad esempio, che uno di questi “eterodossi” del passato, un ex amico personale, una volta mi scisse, dopo avermelo già comunicato oralmente: “Nestor: sono il terrore degli utopisti” (sic). Chi intendeva squalificare come presunti “utopisti“, con la sua solita voce grossa e il suo umorismo ironico e acido che una volta tanto ci divertiva e ci faceva ridere nelle nostre conversazioni abituali? Ebbene, a chi scrive questo prologo e fondamentalmente al nostro caro amico, collega e maestro Fernando Martínez Heredia… E ci chiamerebbe sprezzantemente “utopisti” perché ci associa a Che Guevara, in contrapposizione al suo ammirato Adam Przeworski (liberale di origine polacca, naturalizzato americano), e ad altri guru internazionali adottati come guide indiscutibili dagli intellettuali del PSOE spagnolo.
Parlando con Martínez Heredia nella sua casa all’Avana, Fernando mi disse una volta: “tu sai bene chi è stato coerente e chi no; chi continua nella prospettiva del Che e chi no“. E il contrasto teorico-politico di cui mi aveva messo in guardia Fernando Martínez Heredia è continuato con dettagli che preferisco non approfondire in questo prologo. In quell’occasione ho ascoltato in silenzio, zitto e attento. Non volevo aggiungere benzina al fuoco. Ma le notevoli differenze strategiche all’interno delle “eterodossie” cubane erano chiare.
Non tutti coloro che hanno messo in discussione e contrastato i vecchi dogmi di origine sovietica lo hanno fatto da sinistra e dal comunismo.
Alcuni lo hanno fatto da destra e con non poca simpatia per la socialdemocrazia. Sono partiti da un’ammirazione appena celata per il mercato, concepito come la lampada di Aladino che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi irrisolti di Cuba.