Haiti. L’omicidio di Jovenel Moïse non deve essere il pretesto per un nuovo intervento imperialista (+IMMAGINI)

Foto:Jovenel Moïse, Donald Trump, Melania Trump, Martine Moïse

Il popolo haitiano vive un momento di incertezza ma non piange. Il presidente di fatto, Jovenel Moïse, è stato assassinato nella sua casa di Port-au-Prince e non sono ancora chiari i moventi di coloro che hanno commesso questo crimine.

Secondo enti statali e organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani, ci sono stati 12 massacri, 234 rapimenti (fonte ONU), 10.000 sfollati e sono stati identificati più di 76 gruppi armati. A queste cifre si sono aggiunti 15 nuovi omicidi a fine giugno. È importante ricordare che pochi mesi fa, il 7 febbraio di quest’anno, si è consumato ad Haiti un autogolpe compiuto dallo stesso Moïse, dopo la scadenza del mandato quinquennale di governo previsto dalla Costituzione del Paese. Foto: La disperazione di Haïti, Pulitzer 2009

Il popolo haitiano vive un momento di incertezza ma non piange. Il presidente di fatto, Jovenel Moïse, è stato assassinato nella sua casa di Port-au-Prince e non sono ancora chiari i moventi di coloro che hanno commesso questo crimine.

Dai popoli della Nostra America non gridiamo ai carnefici dei popoli, ma mettiamo in guardia sui possibili scenari che si possono scatenare con questo assassinio a beneficio degli interessi imperialisti, che vivono della creazione del caos come principale strategia di dominio.

Il ricordo della resistenza haitiana ci riporta alla storia del 1915, dove dopo l’assassinio del presidente Vilbrun Guillaume Sam, l’esercito statunitense invase Haiti. Ripeteranno la loro strategia?

L’omicidio di Moïse è uno di quei casi in cui la violenza si rivolta contro il suo generatore originario. Haiti sta vivendo da mesi una spirale di violenza che cerca di fermare e reprimere le rivolte popolari che si sono mantenute permanentemente negli ultimi 4 anni.

Secondo enti statali e organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani, ci sono stati 12 massacri, 234 rapimenti (fonte ONU), 10.000 sfollati e sono stati identificati più di 76 gruppi armati. A queste cifre si sono aggiunti 15 nuovi omicidi a fine giugno. È importante ricordare che pochi mesi fa, il 7 febbraio di quest’anno, si è consumato ad Haiti un autogolpe compiuto dallo stesso Moïse, dopo la scadenza del mandato quinquennale di governo previsto dalla Costituzione del Paese.

Moïse ha coronato così una lunga deriva autoritaria che lo ha messo di fronte alla mobilitazione permanente delle classi popolari, dell’opposizione politica e dell’insieme dei poteri e delle istituzioni dello Stato. Ecco perché mesi fa il popolo haitiano ha chiesto le dimissioni di Moïse, cercando una soluzione democratica e senza intervento straniero.

Richiamiamo l’attenzione su questo perché la spirale ascensionale della violenza è sempre indicata dallo sguardo colonialista come tipico della società haitiana.

Pur lasciando da parte che la “violenza” è organizzata, ha una direzionalità e appare legata soprattutto alle bande armate, che sono cresciute in dispiegamento e capacità operativa grazie al suo legame con le potenze internazionali e in accordo con lo stesso Stato haitiano, colonizzato da settori lacchè dell’imperialismo in tutte le sue forme.

In un momento in cui molti discorsi, senza ancorarsi ai bisogni e ai sentimenti del popolo haitiano, vengono all’attenzione internazionale, è importante chiarire e ripercorrere il colonialismo che è filtrato da destra e sinistra: la crisi ad Haiti non è né astratta, né metafisica, né eterna.

Ha date, cause e responsabilità precise. In primo luogo, la lunga storia di occupazioni, ingerenze e colpi di Stato con l’appoggio internazionale, che fecero del Paese una nuova colonia francese pochi anni dopo la Rivoluzione del 1804, e poi una nuova colonia nordamericana dopo la occupazione dei marines yankee tra il 1915 e il 1934.

In termini generali, i grandi attori di questa politica di ricolonizzazione e tutela sono stati la triade formata da Stati Uniti, Francia – che non ha mai veramente lasciato l’isola – e Canada. Quest’ultimo è forse il paese che pratica la politica più imperialista, invisibile e subdola nel nostro continente, sempre a sostegno delle sue corporation minerarie.

Negli ultimi 50 anni, anche organizzazioni multilaterali, come l’Organizzazione degli Stati americani (OAS), le Nazioni Unite, e gruppi di interesse come il Core Group – composto da paesi che si definiscono “amici di Haiti”, hanno svolto un ruolo di primo piano e mediazione, inclusa la maggioranza europea, con interessi minerari, migratori, finanziari o geopolitici nel Paese.

L’ascesa del cosiddetto “interventismo umanitario” nel dopo Guerra Fredda, o di ideologie simili come la “responsabilità di proteggere” o il “principio di non indifferenza”, si sono riflessi nel laboratorio haitiano nelle innumerevoli  missioni di polizia e militari, con soldati sbarcati sulla costa occidentale dell’isola, dalla missione “pioniera” MICIVIH nel 1993, alla famigerata MINUSTAH nel periodo 2004-2017.

I lodevoli obiettivi dichiarati da queste missioni e agenzie sono stati la pace, la stabilità, il governo, la giustizia, la ricostruzione e lo sviluppo. Tuttavia, Haiti, impossibilitata a portare avanti una politica sostanzialmente sovrana, è regredita negli ultimi quasi 30 anni in tutte le aree e indicatori economico-sociali.

La dimensione politica della crisi haitiana è incomprensibile senza un’interferenza straniera permanente nel suo sistema politico ed economico. Ogni volta che negli ultimi decenni il popolo haitiano ha avuto la possibilità di esercitare liberamente la propria volontà, la partecipazione elettorale è stata enorme: nelle elezioni del 1990, Aristide ha ottenuto una clamorosa vittoria con il 67,39% dei voti.

Jean-Bertrand Aristide fu il primo presidente haitiano liberamente eletto (1990). Deposto e costretto all'esilio (1991), riassunse la presidenza nel 1994. Di nuovo eletto presidente (2001), nel 2004 dovette riprendere la via dell'esilio.

Anche dopo il colpo di stato che lo ha rimosso dal potere – con la partecipazione diretta degli Stati Uniti – in una nuova elezione tenutasi nel 2000, il popolo haitiano ha mostrato ancora una volta il suo impegno democratico ed ha eletto di nuovo Aristide con uno schiacciante 91,7% dei voti validi.

Nel 2004 Aristide fu nuovamente rovesciato, questa volta dall’azione di una Forza Multinazionale Provvisoria composta da truppe provenienti da Stati Uniti, Francia e Canada.

Jovenel Moïse si lascia alle spalle una lunga deriva autoritaria che ha eroso le diverse istituzioni del paese. Il Parlamento è stato chiuso a gennaio e durante quel periodo è stato governato da decreti. Anche la repressione della protesta sociale e la proliferazione della violenza organizzata attraverso bande armate è stata una costante nella sua amministrazione, uno dei casi più recenti è l’esecuzione per le strade del giornalista Diego Charles e della collega femminista Antoinette Duclaire. Ecco perché non merita il nostro rispetto.

Tuttavia, seguiamo con attenzione e preoccupazione le conseguenze di questa morte violenta e sospettiamo che gli interessi dietro di essa non siano di buon auspicio per il popolo di Haiti.

Continuiamo dalla parte del popolo haitiano e delle sue organizzazioni popolari. Continuiamo a denunciare l’interferenza internazionale e l’imperialismo USA. Chiediamo ai governi e ai popoli della Nostra America di non permettere un nuovo intervento militare straniero nel Paese, come quello che Biden e Duque suggeriscono cinicamente con i loro eufemismi di “aiuto” e “protezione della democrazia”.

L’instabilità e la violenza ad Haiti hanno origine dalla costante imposizione di governanti e modelli economici che fanno morire di fame e uccidono solo la maggioranza. Non giustificheremo nessun tipo di colonialismo o intervento. Per un’Haiti libera e sovrana. Mai più Dittatura.


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