Liquidare il dogma. Che insegnamento trarre dal socialismo del XXI secolo e dalle esperienze latinoamericane? E in Europa?

Frida Kahlo: L’ultima cena

“Liquidare il dogma secondo cui il socialismo è possibile solo laddove le forze produttive hanno raggiunto un elevato grado di sviluppo”

Interviste a cura di Alessandro Testa (II. parte)
Fonte: https://www.cumpanis.net/
Adattamento: GFJ

Intervista a Carlo Formenti(*)

(La prima parte dell’intervista, dedicata al “socialismo con caratteristiche cinesi”, potete leggerla qui)

 

Che insegnamento trarre dal socialismo del XXI secolo e dalle esperienze latinoamericane?

L’esperienza delle rivoluzioni latinoamericane, con la loro alternanza di avanzate e ritirate (dopo la controffensiva reazionaria caratterizzata dalla svolta neoliberista in Ecuador e dal golpe boliviano, assistiamo oggi a nuove virate a sinistra, con la vittoria elettorale del MAS boliviano e del candidato comunista in Perù, e con le sollevazioni popolari in Cile) è per noi forse più ricca di insegnamenti di quella cinese. 

È pur vero che anche in questi Paesi a condurre le lotte sono soprattutto le masse contadine di origine indigena (ad accezione dei Paesi del Cono Sud), e che anche qui siamo di fronte a condizioni storiche, socioeconomiche e politico-culturali assai diverse dalla nostra, ma è altrettanto vero che i legami storici fra America Latina, Europa e Usa sono più forti di quelli con la Cina, e che la conoscenza (e l’influenza) del marxismo occidentale ha qui radici lontane e consolidate fin dai tempi delle grandi migrazioni di fine 800/primo 900, per cui il dibattito teorico usa spesso categorie comuni.  

Ciò detto, ritengo che la prima lezione da trarre dal recente ciclo di lotte in America Latina riguardi certi errori che un po’ tutti i governi post neoliberisti (termine che ritengo più corretto di socialisti) hanno commesso dopo essere andati al potere; l’ex vicepresidente boliviano Linera ne ha parlato nel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires, elencandone tre: 

  • la sottovalutazione della difficoltà di riformare la struttura dello Stato una volta giunti al potere;
  • la difficoltà di integrare i ceti medi nel blocco sociale progressista;
  • l’incapacità di sciogliere il nodo della convivenza fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa.   

Nell’intervento appena citato, Linera ammette che cambiare dall’interno la macchina statale si è rivelato assai complicato, tanto è vero che le destre non hanno ripreso forza solo grazie al controllo sui media, sull’università, sulle fondazioni e sulle case editrici, ma soprattutto perché si è dimostrato impossibile “rieducare” magistrati, vertici militari, personale docente, quadri amministrativi, eccetera; a ciò si è aggiunto il fallimento della “riforma morale” contro la corruzione, male endemico in tutti i Paesi del subcontinente, e infine si sono fatte troppe concessioni alle destre, penalizzando la propria base sociale e ignorando che corteggiare la destra significa incoraggiarla a tornare all’attacco. 

Dare continuità al processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è compito arduo

Quanto al secondo punto, Linera evidenzia un paradosso: la ridistribuzione della ricchezza, che ha generato un forte aumento numerico delle classi medie, si è risolto in un incremento dei consumi non accompagnato da adeguati livelli di politicizzazione, per cui non solo le classi medie tradizionali, ma anche quelle create ex novo dopo la rivoluzione, si sono rese protagoniste di rivendicazioni corporative che hanno frammentato il blocco sociale rivoluzionario. 

Infine, venendo al terzo punto, Linera ammette che il problema di dare continuità al processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è compito arduo; il caso dei regimi bolivariani, insediatisi attraverso normali processi elettorali, è raro nella storia delle rivoluzioni sociali, e rappresenta una sfida nella misura in cui impone di gestire il ricambio delle leadership senza mettere in discussione le procedure democratiche (e questa è una differenza radicale rispetto alla Cina). 

Il fatto che si siano approvate costituzioni che introducono forme di democrazia diretta e partecipativa complica le cose, perché genera un dualismo di potere: se molti presidenti hanno promosso riforme per potersi ripresentare più volte alle elezioni, non è stato per soddisfare ambizioni “bonapartiste”, bensì per il fatto che costruire leadership collettive richiede tempi lunghi che le scadenze imposte dalle procedure della democrazia rappresentativa non concedono. 

Ecco perché queste rivoluzioni si trovano esposte al rischio di sconfitte elettorali che possono annullare in poche settimane anni di sforzi per cambiare l’economia, la società e la politica di un Paese. 

In che modo, dunque, le esperienze dell’America Latina sono importanti anche per noi?

Evidentemente questo è un tema caldissimo anche per le nostre società, dove è probabile che un cambio di regime, se mai avverrà, assuma modalità simili; e un’altra sfida che i progetti di trasformazione socialista sudamericani hanno dovuto affrontare, e che si presenterebbe anche qui, è associata all’ideologia “antistatalista” delle sinistre radicali, le quali concepiscono lo stato come il luogo di un potere di per sé malefico, ignorandone la natura di campo di forze su cui è imprescindibile che le classi subalterne si misurino per strapparne il controllo al nemico di classe. 

Partendo da questa visione “demonica” dello stato, le sinistre radicali latinoamericane accusano i governi bolivariani di avere instaurato un “capitalismo di stato”, tradendo il socialismo in nome della ideologia “sviluppista”.  

A queste critiche Linera oppone una visione del processo di costruzione del socialismo come transizione di lungo periodo, non dissimile da quella cinese; il primo passo di tale processo consiste nel restituire alla società il controllo politico sui processi di distribuzione del reddito, sui flussi commerciali e finanziari, e nel garantire alla maggioranza dei cittadini l’accesso gratuito a sanità, educazione superiore, assistenza sociale. 

Le classi medie sono compagni di strada inaffidabili, sulla cui fedeltà è saggio dubitare

In Bolivia questi obiettivi sono stati in larga misura realizzati, così come si è restituito al Paese la dignità di nazione sovrana, emancipandolo dal dominio nordamericano, e si è riconosciuta la natura plurinazionale e plurilinguistica della repubblica, facendo giustizia di secoli di oppressione coloniale della maggioranza indigena da parte delle minoranze bianche e criolle. Sintetizzando, gli insegnamenti che queste esperienze ci consegnano sono: 

  • la consapevolezza che nessun avanzamento economico e sociale – se non accompagnato da profondi cambiamenti della coscienza politica – può garantire a tempo indeterminato il consenso della propria base sociale; 
  • che la capacità di resilienza delle classi dominanti, anche quando sembrano avere subito sconfitte strategiche, non va mai sottovalutata; 
  • che le classi medie sono compagni di strada inaffidabili, sulla cui fedeltà è saggio dubitare. 

Parlando di esperienze storiche concrete e di modelli di transizione al socialismo, viene naturalmente da domandarsi cosa ancora regge della visione originale marxista-leninista della società socialista compiuta.  

Prima di abbozzare una risposta vorrei ragionare su come, nel disastrato campo delle sinistre occidentali, si è provato a immaginare nuovi scenari di transizione; prendo le mosse dall’esperienza dei cosiddetti populismi di sinistra. 

La sinistra democratica di Sanders, il Labour di Corbyn, Podemos e France Insoumise, hanno contribuito a riesumare la parola socialismo che quarant’anni di neoliberismo avevano rimosso dal lessico della politica, ma le loro proposte programmatiche replicano quelle delle socialdemocrazie del “trentennio glorioso”.

Ciò non basta però a liquidarle sprezzantemente come riformiste: credo sia giusto ricordare come il dibattito interno alla socialdemocrazia tedesca di fine 800/primo 900 –oggi ripreso in ambito latinoamericano – avesse stemperato l’opposizione riforme/rivoluzione; sia Engels che la Luxemburg avevano, infatti, ribadito che la vera differenza è fra chi considera le riforme come fine in sé e chi le concepisce come strumento per preparare la rivoluzione. 

Resta il fatto che parliamo di programmi politici che, a un primo esame, appaiono compatibili con il modo di produzione capitalista e con i suoi assetti istituzionali. Ma è così? 

La verità è che, mentre il modo di produzione fordista poteva permettersi il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, il capitalismo contro cui ci troviamo a lottare oggi non vuole, né può, rinunciare ai frutti delle vittorie sulle classi subalterne che ha ottenuto dagli anni Ottanta a oggi; i progetti di ri-nazionalizzazione di settori strategici dell’economia e/o dei servizi pubblici essenziali, le proposte di rendere l’istruzione superiore e l’assistenza sanitaria gratuiti e accessibili a tutti, l’idea di riattivare la separazione fra banche commerciali e banche di investimento, i progetti di sganciamento dalla Ue, eccetera, non sono “riforme” che il sistema potrebbe sopportare, bensì una minaccia alle sue condizioni di sopravvivenza. 

Ecco perché i partiti di centrodestra e centrosinistra, uniti dalla devozione al liberismo, affibbiano l’etichetta di comunisti persino a formazioni che, come l’M5S, non nutrono velleità antisistema; o definiscono neofascisti i populisti di destra (anche se questi li inquietano meno, perché non mettono in discussione le regole del mercato). 

Il fatto è che decenni di controrivoluzione liberista hanno trasformato a tal punto l’economia, le relazioni sociali, le modalità di funzionamento delle istituzioni pubbliche e la stessa antropologia dei Paesi occidentali, da rendere i programmi appena evocati “sovversivi” a tutti gli effetti, nella misura in cui la loro messa in atto minerebbe le condizioni che rendono possibile l’accumulazione allargata del capitalismo finanziarizzato e globalizzato. 

È evidente che, per imporre certi cambiamenti, non basta andare al governo: occorre cambiare le strutture e i meccanismi di funzionamento del potere politico. 

Il capitale non può rinunciare ai risultati ottenuti grazie a decenni di “guerra di classe dall’alto” (Gallino) condotta da una élite transnazionale fatta di detentori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, top manager, finanzieri e uomini politici di tutti i maggiori partiti tradizionali, un blocco sociale che, con l’appoggio di larghi settori di classe media e di tutti i partiti tradizionali, è riuscito a ridurre drasticamente i salari reali; a inasprire tempi e ritmi di lavoro; a rinsaldare la disciplina e le gerarchie nella società e nelle aziende; a demolire il welfare e i diritti sociali conquistati al prezzo di dure lotte. 

Non a caso, quando la bolla immobiliare del 2007/2008 ha inceppato questo dispositivo di dominio, si è reagito con nuovi tagli alla spesa pubblica, con massicce privatizzazioni di beni comuni e servizi pubblici e con una serie di “riforme” del diritto del lavoro che hanno ulteriormente ridotto il potere contrattuale della forza lavoro, misure che rischiano di subire ulteriori inasprimenti per far fronte alla crisi innescata dalla pandemia del Covid 19. 

La reazione popolare si è manifestata perlopiù attraverso il consenso elettorale ai populismi di destra e di sinistra, ma anche questo canale è stato rapidamente prosciugato (vedi i processi di normalizzazione subìti dal Labour, da Podemos e dall’M5S) perché una versione occidentale dell’economia mista cinese, o di quella che i governi bolivariani hanno tentato di introdurre in America Latina, è incompatibile sia con le attuali dinamiche di mercato, sia con le forme statuali che ne garantiscono il funzionamento. È dunque evidente che, per imporre simili cambiamenti, non basta andare al governo: occorre cambiare le strutture e i meccanismi di funzionamento del potere politico. 

E qui una domanda sorge spontanea: quale ruolo possono giocare le sinistre radicali occidentali in questa partita?

Le sinistre radicali occidentali non sono all’altezza del compito perché invischiate da un’ideologia libertaria, antistatalista se non antipolitica: a partire dalla fine dei Settanta, lo strato sociale, politico culturale in cui affondano le radici ha progressivamente rinunciato agli obiettivi delle lotte sociali, rimpiazzandoli con le rivendicazioni dei diritti individuali e civili. 

Le sinistre radicali occidentali non sono all’altezza del compito perché invischiate da un’ideologia libertaria, antistatalista se non antipolitica. Sono passate dalla contestazione delle responsabilità del sistema capitalista nella devastazione dell’ambiente al sostegno nei confronti di un capitalismo “ecologicamente responsabile”; hanno abbandonato il femminismo socialista per un femminismo liberal progressista che si concentra sui temi del riconoscimento identitario e della parità di genere

Ma soprattutto esse hanno completamente rinunciato a lottare per la conquista del potere politico, bollato come malvagio in quanto tale; hanno sposato un’ideologia cosmopolita che non ha nulla a che fare con l’internazionalismo proletario; sono passate dalla contestazione delle responsabilità del sistema capitalista nella devastazione dell’ambiente al sostegno nei confronti di un capitalismo “ecologicamente responsabile”; hanno abbandonato il femminismo socialista per un femminismo liberal progressista che si concentra sui temi del riconoscimento identitario e della parità di genere all’interno delle regole del mercato e delle istituzioni liberal democratiche; manifestano un profondo disprezzo per le classi subalterne, per i “plebei” che considerano terreno di caccia delle ideologie di destra – disprezzo manifestato attraverso l’uso sanzionatorio di quel “linguaggio politicamente corretto” che è divenuto lo strumento egemonico delle élite borghesi “progressiste”. 

E quindi cosa dovrebbe invece fare una sinistra di classe?

È possibile riprendere le fila del discorso gramsciano aggiornandolo con le lezioni che ci arrivano dalle rivoluzioni cinese e latinoamericane? Una prima risposta è che, se per queste ultime il problema strategico è stato costruire l’alleanza fra il proletariato e le altre classi subalterne, per noi il problema prioritario è ri-costruire l’unità del proletariato. 

La classe non è un’entità preordinata, bensì un costrutto politico, esattamente come il popolo e la nazione; se la “classe in sé” è il terreno materiale su cui si può costruire il progetto della “classe per sé”, in assenza di un tale progetto, espressione dell’autonomia del politico, la classe non si eleva al di sopra del ruolo di capitale variabile. 

Ciò è tanto più importante in quanto lo smembramento del corpo di classe prodotto dalla rivoluzione neoliberista rende difficile anche la sua ricomposizione sul piano dell’immediato interesse comune, della mera coscienza corporativa; inoltre, l’esperienza latinoamericana insegna che, se e quando si porrà il problema delle alleanze, occorrerà compiere un’accurata valutazione delle contraddizioni interne alle classi medie, separandone gli strati inferiori dagli strati medio-alti che restano saldamente agganciati al blocco egemone delle classi dominanti. 

I populismi di sinistra hanno mancato entrambi questi obiettivi: Sanders ha tentato di assemblare un fronte eterogeneo fra le classi lavoratrici e le loro organizzazioni sindacali, le minoranze etniche e le sinistre liberal progressiste, senza stabilire alcuna gerarchia fra questi soggetti, per tacere del fatto che non ha avuto il coraggio di rompere con il Partito Democratico.

Un'altra lezione sul tema della transizione che abbiamo imparato dalle altrui esperienze: andare al governo non equivale a prendere il potere; il Partito Comunista Cinese può fare certe cose perché tiene saldamente in pugno le redini del potere politico. Per i regimi bolivariani, come si è visto, le cose sono molto più complicate, e ancora più complicate sarebbero per noi.

Corbyn si è lasciato condizionare dalla New Left che, facendo entrismo nel Labour, ne aveva favorito la nomina a segretario del Partito – una base europeista che gli ha impedito di gestire da sinistra la battaglia per l’uscita dalla Ue, per cui si è alienato l’appoggio di quei settori di proletariato che avevano votato per la Brexit. 

Podemos non ha raccolto le sollecitazioni di chi al suo interno insisteva per costruire una vera organizzazione di partito, affondando le radici nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nei quartieri, limitandosi a raccogliere un consenso di opinione attraverso campagne mediatiche contro la corruzione e non ha mai osato agitare l’obiettivo dell’uscita dalla Ue. 

Mélenchon ha ceduto alle sirene del centrosinistra che chiamava al fronte unito contro la minaccia fascista del Front National, perdendo l’occasione di recuperare il consenso delle banlieux, transitate dall’appoggio al PCF a quello al FN in odio alle politiche della “sinistra” socialista. 

In tutti questi casi si è preferito dare la precedenza alle alleanze con il ceto medio e con le sinistre progressiste che ne incarnano umori e culture piuttosto che all’ardua impresa organizzativa, ideologica e culturale di ricompattamento delle classi lavoratrici; si è scelto, cioè, di rivolgere l’attenzione a quei soggetti che si immaginava potessero garantire una rapida vittoria elettorale, piuttosto che privilegiare il lavoro lento e faticoso di costruire una massa critica in grado di cambiare le cose. 

Si è scelta una scorciatoia “comunicazionista”, pensando che un discorso efficace avrebbe spalancato le porte del governo, senza porsi il problema di cosa fare una volta raggiungo l’obiettivo. 

Ecco l’altra lezione sul tema della transizione che abbiamo imparato dalle altrui esperienze: andare al governo non equivale a prendere il potere; il PCC può fare certe cose perché tiene saldamente in pugno le redini del potere politico. 

Per i regimi bolivariani, come si è visto, le cose sono molto più complicate, e ancora più complicate sarebbero per noi.

Concludendo, alla luce di tutto questo quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva comunista in Europa?

Che forme organizzative e istituzionali dovrebbe darsi un progetto politico di cambiamento radicale? Non ho ricette miracolistiche da offrire: mi sento solo di dire un paio di cose che rischiano forse di suonare generiche. 

In primo luogo: è assolutamente prioritario ricostruire un partito di classe, respingendo la tentazione di riproporre il modello anacronistico del partito di rivoluzionari di professione, ma anche quella di insistere sulla via fallimentare del movimentismo spontaneista, del rifiuto a priori della forma partito e della politica istituzionale. 

Occorrerà procedere per tentativi ed errori, sperimentando diverse soluzioni; ricostruire la classe e ricostruire un partito di classe sono obiettivi strettamente intrecciati, il che significa, per esempio, che funzioni politiche e sindacali, pur evitando di confondere le une con le altre, non potranno essere rigidamente separate, e che andranno evitati sia gli eccessi di verticalizzazione sia gli eccessi di orizzontalismo. 

Infine, il vuoto spaventoso di cultura politica creato da decenni di egemonia liberista andrà colmato con un poderoso sforzo di formazione, in modo da costruire un ampio strato di quadri intermedi capaci di sfornare alternative ai gruppi dirigenti. 

Veniamo al tema dello stato: posto che i programmi riformisti richiamati in precedenza assumono un carattere sovversivo e una coloritura socialista inaccettabile dall’attuale sistema capitalistico, per cui potranno realizzarsi solo in presenza di una radicale crisi non solo sociale ed economica ma anche istituzionale, è evidente che chi andasse al potere in simili circostanze avrebbe il compito di rivoltare come un calzino le strutture stesse dell’organizzazione statale.

Il vuoto spaventoso di cultura politica creato da decenni di egemonia liberista andrà colmato con un poderoso sforzo di formazione, in modo da costruire un ampio strato di quadri intermedi capaci di sfornare alternative ai gruppi dirigenti. 

Per adempiere questo compito non basta avere un ampio consenso popolare, occorre anche una formidabile concentrazione di potere, il che ci riconduce al dilemma che attraversa l’intera storia delle rivoluzioni sociali: come evitare degenerazioni autoritarie? 

Credo che la risposta consista nella creazione di contrappesi istituzionali che potrebbero assumere la forma di istituti popolari di democrazia diretta e partecipativa in grado di esercitare, ove necessario, il conflitto nei confronti di certe decisioni politiche. 

Mi avvio a concludere. Lo scenario appena delineato implica una concezione della transizione al socialismo come processo secolare, fatto di avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte, rispetto al quale non è possibile contare su nessuna “necessità” storica immanente, ma su una successione di possibilità che solo l’azione politica consapevole può dischiudere, imparando dai propri errori e inventando soluzioni inedite. 

Un processo secolare durante il quale non verrà mai a cessare il conflitto di classe, il che non è un limite bensì la condizione stessa di poter arrivare alla vittoria, una vittoria che non sarà la fine della storia – e nemmeno della preistoria, per citare Marx –, non sarà cioè il paradiso di una umanità pacificata, una società di esseri umani pienamente liberi e realizzati ma, più laicamente, un mondo liberato dalla ferocia dello sfruttamento capitalistico, dalla guerra e dalle forme di oppressione di ogni tipo, nel quale il conflitto – che resta a mio avviso l’insostituibile motore di una storia destinata a non finire mai – non assumerà più forme antagonistiche.  


(*)Carlo Formenti, politico, giornalista e scrittore ben conosciuto nell’ambiente marxista, nasce a Zurigo nel 1947 e si trasferisce a Milano pochi mesi dopo; la sua vita politica inizia nei primi anni Sessanta, quando il padre lo inserisce nella formazione bordighista in cui militava. 
A partire dal 1967, frequenta i gruppi maoisti, finché contribuisce a fondare il Gruppo Gramsci; dal 1970 al 1974 si dedica all’attività sindacale, che interrompe per completare gli studi, laureandosi nel 1976, con una tesi sull’impatto delle tecnologie informatiche sull’organizzazione del lavoro, pubblicata da Feltrinelli con il titolo Fine del valore d’uso. 
Dalla fine degli anni Settanta abbandona la politica attiva, limitandosi alla lotta ideologica e teorica; negli anni ‘80 è caporedattore del mensile “Alfabeta”, e ai primi del Duemila diviene ricercatore all’Università di Lecce, dove riprende le ricerche sulle conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali della rivoluzione tecnologica. 
Torna alla vita politica attiva negli ultimi cinque anni, militando in alcune formazioni della sinistra sovranista, per avvicinarsi infine al Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Fra i suoi libri più recenti: Utopie Letali (Jaka Book 2013), La variante populista (DeriveApprodi 2016), Il socialismo è morto viva il socialismo (Meltemi 2019).


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